La vera rivoluzione inizia tra i banchi
In una società che cambia velocemente e sempre più minacciata dalle diseguaglianze, ripensare il modello educativo diventa una priorità, per rinsaldare la comunità e valorizzare il pensiero critico. Il cambiamento è già in atto, ecco qualche esempio.
di Matteo Petruzza
Viviamo in un continente che si definisce libero. Abbiamo il diritto di voto, la libertà di movimento, la possibilità di esprimere opinioni. Ma se entriamo nelle aule delle nostre scuole, ci accorgiamo che non tutto è ancora così “aperto” come potrebbe essere. La scuola è uno dei pochi luoghi in cui i giovani provenienti da culture e contesti sociali diversi si incontrano per crescere insieme. Ed è proprio tra i banchi che può nascere la spinta per un futuro più giusto e consapevole. In molte scuole, insegnanti, dirigenti e studenti lavorano con passione e intelligenza per innovare, includere, far crescere. Tuttavia, accanto a tante esperienze positive, permangono anche alcune dinamiche radicate – spesso inconsapevoli – che rischiano di limitare la libertà di pensiero e la creatività.
Già negli anni ’70 il pedagogista brasiliano Paulo Freire parlava di “educazione bancaria”: un modello in cui l’insegnante deposita nozioni in studenti considerati vuoti, “da riempire”. Una scuola che premia chi ripete bene, non chi crea qualcosa di nuovo. E anche se oggi molti eccellenti educatori superino questa logica, essa resiste in varie forme, soprattutto nei programmi rigidi, nelle valutazioni standardizzate e nella pressione del risultato. Ed è per questo che serve, ancora oggi, una riflessione aperta. Per valorizzare quello che di buono già c’è – e sono tante le esperienze virtuose – ma anche per riconoscere ciò che si può cambiare. Perché oggi, più che mai, abbiamo bisogno di menti critiche, curiose, capaci di leggere la complessità del presente e costruire nuove strade. Ecco quindi cinque dinamiche ricorrenti, che vale la pena osservare da vicino.
Individualismo
Fin da piccoli ci insegnano che bisogna farcela da soli e che chiedere aiuto è un sintomo di debolezza. Si gareggia per i voti, per il posto nei test, per il titolo accademico. Ma nella vita reale, i problemi complessi si risolvono insieme. L’individualismo ci isola e ci fa sentire inadeguati. Soprattutto quando sbagliamo – cosa che, tra l’altro, è il modo migliore per imparare.
Normalizzazione
“Così si fa” è una delle frasi più ripetute tra i banchi. Uniformarsi diventa la regola non scritta. Se pensi in modo diverso, sei “strano”; se ti vesti diversamente, sei “fuori moda”; se fai domande scomode, sei “fastidioso”. La scuola spesso non premia la diversità, la nasconde. Ma un mondo che cambia ha bisogno proprio di chi pensa fuori dagli schemi.
L’ideologia nascosta
Anche se non si vede, dietro alla struttura scolastica c’è un’idea ben precisa di società: produttiva, competitiva, efficiente. Si insegna a rispettare le gerarchie, a lavorare per obiettivi, a seguire le regole. Tutte abilità utili… ma a vantaggio di chi? Spesso la scuola forma buoni lavoratori più che cittadini consapevoli. Si studia per un voto, per un titolo, per un lavoro, ma raramente per capire davvero il mondo in cui viviamo.
Il sapere come dogma
L’insegnante parla, lo studente ascolta. Il programma è fisso, i contenuti sono stabiliti. Non c’è tempo per le domande, per i “perché”, per i dubbi. Ma imparare non è solo memorizzare: è costruire un significato personale. Quando lo studente non ha spazio per interpretare, connettere, criticare, il sapere diventa sterile. E la scuola perde la sua funzione più nobile: accendere curiosità.
Alienazione
Quante volte abbiamo pensato: “A cosa mi serve tutto questo?” Quando lo studio appare distante dalla vita reale, ci si sente scollegati. Come in fabbrica, quando non sai a cosa serve ciò che produci. L’alienazione scolastica è quella sensazione di vuoto che si prova quando si studia per obbligo e non per desiderio. Ma l’apprendimento dovrebbe coinvolgere, emozionare, trasformare.
Ripensare la scuola, ogni giorno
La buona notizia è che cambiare si può. Non servono miracoli, ma si può partire da piccoli cambiamenti quotidiani. E alcuni grandi pedagogisti ci hanno già indicato strade alternative. Lev Vygotsky, psicologo e pedagogista sovietico, ad esempio, ha mostrato quanto sia potente l’apprendimento condiviso. Impariamo meglio quando lo facciamo con altri, attraverso il dialogo, il confronto, la collaborazione. La scuola può (e dovrebbe) essere una comunità viva, non un insieme di individui isolati.
John Dewey filosofo e pedagogista statunitense della prima metà del ‘900, promotore tra le altre cose dell‘ outdoor education di cui tanto si parla oggi, ha formulato invece il concetto di “learning by doing”: imparare facendo. Quando un’attività è concreta, sensata, collegata alla realtà, lo studente non solo capisce di più, ma se ne prende anche cura. L’esperienza è la chiave per rendere l’apprendimento autentico. Il pensiero critico, infine, è forse la competenza più importante oggi. In un mondo dove siamo sommersi da informazioni, dobbiamo saperci orientare, distinguere, mettere in dubbio. Eppure, la scuola spesso si concentra più sui contenuti che sulla capacità di interpretarli.
Educare per aprire il futuro
La scuola dovrebbe essere il luogo dove impariamo a costruire il nostro futuro, non a subire quello che ci viene imposto. Invece di prepararci ad abitare un mondo già scritto, dovrebbe offrirci gli strumenti per riscriverlo. Questo significa rimettere al centro la persona, le sue domande, la sua unicità. Significa trasformare l’educazione in un processo vivo, collettivo, trasformativo. Non si tratta di essere contro la scuola, ma di desiderarla migliore. Più inclusiva, più viva, più libera. Una scuola che non abbia paura delle differenze, che valorizzi la cooperazione, che insegni a pensare, non solo a rispondere. Una scuola che ci prepari non solo a trovare un posto nel mondo, ma a cambiarlo.
In fondo, educare – nel suo senso più profondo – non è solo trasmettere conoscenze. È aiutare ciascuno a diventare ciò che è. È creare legami, visioni, possibilità. Ed è da lì che può iniziare un vero cambiamento. Questo è anche il senso del lavoro che Humana People to People porta avanti in Italia e nel mondo: costruire comunità attraverso azioni concrete, che parlino di giustizia sociale, ecologica, educativa.
Lo fa ogni giorno negli orti sociali, dove si “coltiva il clima e la comunità”: spazi verdi condivisi che diventano luoghi di incontro, formazione e cura del territorio.
Lo fa nelle scuole, dove i suoi educatori non portano solo parole, ma oggetti, materiali e storie da toccare con mano, per rendere l’apprendimento tangibile, esperienziale, reale. Lo fa invitando le classi a visitare il suo impianto di selezione del tessile post consumo a Pregnana Milanese, affinché gli studenti possano toccare con mano cosa significa economia circolare e responsabilità ambientale. E lo fa nei progetti comunitari nel mondo, dove l’educazione si intreccia con la salute, l’agricoltura, i diritti: dove si semina futuro insieme alle persone, non per loro.
In tutte queste azioni c’è un filo rosso: credere che l’educazione non sia solo preparazione alla vita, ma vita stessa. Che ogni bambino, ogni giovane, ogni adulto abbia il diritto di imparare in modo attivo, dignitoso e significativo. Educare per un futuro aperto significa questo: aprire spazi, creare possibilità, costruire insieme comunità che siano davvero libere di immaginare e realizzare un mondo migliore.
Fonti e ispirazioni:
Paulo Freire, Pedagogia degli oppressi – L’educazione come atto politico e strumento di liberazione.
John Dewey, Experience and Education – L’importanza dell’apprendimento esperienziale.
Lev Vygotsky, Mind in Society – La dimensione sociale e collaborativa del sapere.
Samuel Bowles & Herbert Gintis, Schooling in Capitalist America – Un’analisi critica del ruolo della scuola nella riproduzione delle disuguaglianze.