La Cop26 di Glasgow si è conclusa tra importanti passi avanti e il ridimensionamento di alcuni impegni. La Federazione Humana People to People ha partecipato alla Conferenza insieme ad altre organizzazioni che si occupano di interventi che rafforzano le capacità di adattamento delle comunità agli effetti del cambiamento climatico.

di Federico Turchetti

Il 13 novembre si è conclusa la COP26 di Glasgow, la ventiseiesima conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico organizzata dal Regno Unito in collaborazione con l’Italia. Dopo mesi di preparazioni e due settimane di intense negoziazioni in Scozia, diplomatici e negoziatori di quasi duecento Paesi hanno raggiunto un’intesa che ha condotto all’adozione del cosiddetto Glasgow Climate Pact[1].

Nonostante molte voci critiche si fossero levate ancor prima del suo avvio, le aspettative riguardo alla COP26 erano molto alte. Ad innalzarle hanno contribuito l’urgenza di affrontare il cambiamento climatico in modo deciso e olistico, ormai ampiamente percepita a livello globale e al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica e delle agende governative di numerosi Paesi, lo slittamento della conferenza di un anno a causa della pandemia, il rientro al centro della scena degli Stati Uniti e la massiccia presenza del settore privato, tra cui molte delle aziende più grandi e potenti al mondo. Se è vero che chi nulla si aspetta raramente è scontentato, è anche vero che alte aspettative spesso si trasformano in cocenti delusioni, e non pochi sono gli osservatori che hanno considerato la COP26 come un flop. Qui non vogliamo dare un giudizio sull’esito della conferenza, ma ci limiteremo a riassumere alcuni dei punti principali emersi dalla COP26 in relazione anche a Humana People to People e alle altre organizzazioni che si occupano di interventi che rafforzano le capacità di adattamento delle comunità dei Paesi in via di sviluppo agli effetti del cambiamento climatico.

Tra le numerose ONG che hanno partecipato alla conferenza in qualità di organizzazioni osservatrici c’era infatti la Federazione Internazionale Humana People to People, che ha rappresentato a Glasgow le 29 organizzazioni della società civile ad essa associate e che operano in 45 Paesi, alcuni dei quali sono tra i più vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico.

I nostri rappresentanti hanno quindi preso parte ai numerosi eventi organizzati nell’area riservata ai partecipanti accreditati (la Blue Zone) e in quella aperta al pubblico (la Green Zone). La conferenza è stata anche occasione per incontrare i rappresentanti del Sahara and Sahel Observatory (OSS), del Green Climate Fund (GCF) e dell’Adaptation Fund. L’OSS è un’organizzazione intergovernativa africana con sede in Tunisia che è registrata come entità regionale implementante presso l’Adaptation Fund e come ente accreditato presso il GCF. Diverse organizzazioni dell’Africa sub-sahariana che appartengono alla Federazione Internazionale Humana People to People stanno attualmente collaborando con l’OSS nell’ambito di progetti di adattamento al cambiamento climatico finanziati proprio dal GCF e dall’Adaptation Fund. Il primo progetto ad essere implementato in partnership con l’OSS sarà l’intervento “Resilience Building as Climate Change Adaptation in Drought-Struck South-Western African Communities” (ADSWAC)  in Angola e Namibia[2], di cui si è brevemente parlato sempre in questo blog[3], mentre altri progetti si trovano in diversi stadi di pianificazione e potrebbero essere approvati nel corso dei prossimi due anni.

David Kerkhofs, Programme Coordinator di Humana People to People, ha preso parte al dibattito “Youth-led research into climate change adaptation of young people”, organizzato dall’Università di Cambridge, e all’evento “Data quality and availability in climate finance”, organizzato dall’OSS e incentrato sull’importanza della qualità e disponibilità di dati per la pianificazione di interventi volti a rafforzare le capacità di adattamento al cambiamento climatico. Jesper Wohlert, Direttore dell’ufficio Partnership Europee di Madrid, ha invece presentato il progetto “Yunnan Low-carbon Schools Pilot Project”, implementato in Cina con fondi dell’Unione Europea e di Humana da una collaborazione tra Humana People to People, la Yunnan Academy for Science and Technical Information, l’Università Southwest Forestry e il Chinese Youth Climate Action Network. Questo progetto di quattro anni si concluderà a fine 2023 e coinvolgerà 600 scuole e 70.000 studenti con attività volte a promuovere la sostenibilità ambientale delle scuole e a ridurre le loro emissioni, aumentando intanto la consapevolezza dei più giovani su tematiche inerenti al cambiamento climatico. 

Per quanto riguarda i risultati delle negoziazioni tra i Paesi presenti alla COP26, uno dei punti principali concerne la menzione diretta nell’accordo finale, per la prima volta nella storia, dei combustibili fossili. Nel Glasgow Climate Pact è stato infatti inserito un riferimento esplicito alla necessità di accelerare gli sforzi per ridurre il consumo di carbone, uno dei principali contributori alle emissioni di gas serra, e per eliminare gradualmente inefficienti sussidi ai combustibili fossili. Molte delle voci più critiche nei confronti dell’esito della COP26 riguarda proprio questo passaggio del testo finale, il quale è stato annacquato (“phasedown of unabated coal power and phase-out of inefficient fossil fuel subsidies”) per volere soprattutto di Cina e India, due Paesi che contribuiscono enormemente alle attuali emissioni totali di gas serra ma che hanno anche la necessità nei prossimi anni di aumentare la produzione di energia al fine di mantenersi su una traiettoria di sviluppo che possa far uscire dalla povertà decine di milioni di persone. Questa è sicuramente una priorità per numerosi altri Paesi emergenti che non hanno intenzione di compromettere il proprio sviluppo per un problema causato in massima parte da popolazioni relativamente ricche e che hanno vissuto per decenni con alti stili di vita e senza preoccuparsi, salvo rare eccezioni, del cambiamento climatico. Il profondo dispiacere espresso da Alok Sharma, presidente della COP26, riguardo all’annacquamento del testo finale tramite parole precise (phasedown, unabated, phase-out, inefficient etc.) è dovuto principalmente a questo passaggio sul carbone. Tuttavia, è certamente incoraggiante che per la prima volta questo importantissimo tema sia stato affrontato in un testo condiviso da quasi duecento Stati con obiettivi di sviluppo diversi e talvolta concorrenti.

Nel testo finale viene richiesto ai Paesi che hanno sottoscritto l’Accordo di Parigi di revisionare e rafforzare entro la fine del 2022 i propri piani di riduzione delle emissioni di gas serra, tenendo però conto delle differenti circostanze a livello nazionale. L’idea è dunque quella di arrivare all’inizio della COP27, che si terrà a Sharm el-Sheikh in Egitto nel novembre 2022, con delle Nationally Determined Contributions (NDCs) che siano in linea con l’obiettivo dell’Accordo di Parigi, ovvero limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C e il più vicino possibile  all’1,5°C. Vedremo nei prossimi mesi se e come questa richiesta verrà accolta, considerando che alcuni Paesi emergenti non sembrano essere disposti ad aggiornare in maniera significativa le proprie NDC poiché non hanno ricevuto tutti gli aiuti finanziari promessi da quelli più ricchi per supportare i loro sforzi di adattamento e mitigazione. Nel 2009 sono stati promessi dai Paesi sviluppati 100 miliardi di dollari all’anno da mettere a regime nel periodo 2020-2025, una cifra che oggi, alla luce delle allocazioni già decise, resta molto lontana. Ci sono quindi in ballo finanziamenti enormi, per quanto insufficienti[4], e che anche nelle forme più contenute dovranno essere approvati dai cittadini dei Paesi più ricchi. Benché la situazione sia complessa e una conclusione positiva non scontata, la COP26 ha avuto il merito di ribadire con forza l’urgenza di rispettare gli impegni presi e di far adottare un processo formale che porterà alla definizione di un obiettivo di finanza climatica di lungo termine, oltre il 2025, che sarà rafforzato da dialoghi ministeriali biennali di alto livello. Tutto questo servirà a mantenere alta l’attenzione politica sul tema del rispetto degli impegni presi. 

Un importante passo in avanti è stato compiuto per quanto concerne la necessità di rafforzare le capacità di adattamento agli effetti del cambiamento climatico. È stata infatti riconosciuta la necessità di definire un obiettivo globale di adattamento e la necessità di valutare i progressi compiuti utilizzando metodologie adeguate, sia qualitative sia quantitative. Un programma di lavoro di due anni, il Glasgow-Sharm el Sheikh Work Programme on the Global Goal on Adaptation (GlaSS), è stato stabilito e avrà l’obiettivo di definire metodologie, indicatori, dati e metriche nonché il supporto necessario per valutare il progresso nel campo dell’adattamento e rafforzare l’implementazione delle azioni di adattamento nei Paesi più vulnerabili. Molto importante è anche l’impegno preso dai Paesi più ricchi di raddoppiare i finanziamenti per sostenere l’adattamento agli effetti del cambiamento climatico nei Paesi in via di sviluppo.
Il tema dell’adattamento è di importanza fondamentale per i membri della Federazione Humana People to People, i quali auspicano sia una maggiore disponibilità di risorse finanziarie per interventi di adattamento, spesso trascurati in favore di interventi di mitigazione, sia una maggiore semplicità e velocità nell’accesso ai fondi e nel passaggio alla fase di implementazione dei progetti. Di positivo c’è che la COP26 sia riuscita a porre la questione dell’adattamento al centro della scena.

I 134 Paesi in via di sviluppo membri del G77 sono invece rimasti delusi dal mancato impegno raggiunto sulla “loss and damage facility”, un meccanismo che vedrebbe i Paesi più ricchi, nonché storicamente responsabili della maggior parte delle emissioni di gas serra in atmosfera, offrire riparazioni alle nazioni più povere e vulnerabili per le perdite che queste hanno subito e subiranno a causa del cambiamento climatico. Il Glasgow Climate Pact ha confermato l’introduzione di un sistema di assistenza tecnica che supporti gli Stati più colpiti, ma non ha allo stesso tempo definito un impegno in termini di risorse finanziarie e di tempistiche certe. Questo tema è sicuramente tra i più complessi e vede Stati Uniti e Unione Europea contrari a un meccanismo di “loss and damage”, perché temono che un impegno formale a concedere “riparazioni” possa aprire la strada a richieste di indennizzi potenzialmente illimitati da parte degli Stati più colpiti dal cambiamento climatico.

Riguardo all’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi la COP26 ha avuto un esito positivo (non perfetto, ma accordi di questo tipo sono basati su compromessi) e sia i Paesi più sviluppati, che fanno affidamento alla possibilità di usare i mercati dei crediti di carbonio per implementare strategie di offsetting per il raggiungimento delle proprie NDC, sia quelli in via di sviluppo possono ritenersi parzialmente soddisfatti dall’accordo raggiunto. Oltre ad essere stato l’ultimo articolo su cui la COP21 del 2015 ha raggiunto un accordo, l’Articolo 6 aveva eluso fino al Glasgow Climate Pact ogni consenso sulle questioni operative inerenti alla sua implementazione, non entrando quindi definitivamente in quello che viene definito come “Paris Rulebook”. Una sua piena implementazione ha il potenziale di sbloccare ingenti risorse finanziare e aumentare di molto l’ambizione nel perseguimento degli obiettivi posti dall’Accordo di Parigi. Ciò sarebbe reso possibile dalla cooperazione su base volontaria prevista dall’Articolo 6, e che include tre diverse strade: l’utilizzo dei cosiddetti internationally transferred mitigation outcomes (ITMOs), un nuovo sistema di credito generalmente chiamato Sustainable Development Mechanism e un framework per approcci non-market. Alcuni studi stimano che l’Articolo 6 possa ridurre i costi delle azioni di mitigazione inserite nelle attuali NDC fino a circa 300 miliardi di dollari all’anno. Inoltre, l’articolo potrebbe contribuire a generare fondi addizionali per il rafforzamento delle capacità di adattamento dei Paesi più vulnerabili. Il mercato del carbonio, con tutte le sue problematiche, si conferma dunque un elemento da guardare con grande attenzione nei prossimi anni, anche per organizzazioni come Humana People to People, che potranno sviluppare strategie per l’inserimento dei crediti di carbonio all’interno dei propri programmi di sviluppo al fine di generare risorse addizionali per le comunità più vulnerabili.  

Altri elementi importanti emersi dalla COP26, decisi al di fuori delle negoziazioni ufficiali, riguardano un annuncio sulla riduzione delle emissioni di metano (Global Methane Pledge)[5] entro il 2030 e l’impegno da parte di 137 Paesi limitare significativamente la deforestazione (Glasgow Leaders’ Declaration on Forests and Land Use)[6].

Tutto questo sarà sufficiente a scongiurare un eccessivo riscaldamento globale? Entro l’inizio della COP27 avremo probabilmente una risposta più precisa a riguardo; possiamo per ora dire che la COP26, il cui esito è stato prevedibilmente basato sul compromesso, ha finalmente posto degli importanti tasselli e ha aperto uno spiraglio per restare in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi del 2015. Ora bisognerà vedere come gli Stati passeranno dalle parole ai fatti. Tenendo comunque a mente che le parole sono importanti perché trattati internazionali e leggi nazionali sono fatti, per l’appunto, di parole.

[1] https://unfccc.int/process-and-meetings/conferences/glasgow-climate-change-conference-october-november-2021/outcomes-of-the-glasgow-climate-change-conference

[2] https://www.adaptation-fund.org/project/resilience-building-as-climate-change-adaptation-in-drought-struck-south-western-african-communities-angola-namibia/

[3] http://www.humanaitalia.org/blog/la-cooperazione-internazionale-e-il-cambiamento-climatico/

[4] Per far fronte alle esigenze dei Paesi in via di sviluppo di adattarsi agli effetti del cambiamento climatico, effetti che sono ormai inevitabili anche se si smettesse oggi stesso di immettere ulteriori gas serra in atmosfera, servirebbero centinaia di miliardi, se non trilioni, di dollari ogni anno. Inoltre, enormi finanziamenti e una tempestiva strategia di trasferimento tecnologico, con tutte le questioni politiche ed economiche che questa comporta, sono necessari affinché le azioni per ridurre le emissioni vengano implementate anche nei Paesi emergenti e più poveri, senza che questi compromettano il loro sviluppo. Per maggiori informazioni su questo tema: https://www.nature.com/articles/d41586-021-02846-3.

[5] https://www.bbc.com/news/world-59137828

[6] https://ukcop26.org/glasgow-leaders-declaration-on-forests-and-land-use/