Si sente sempre più parlare del nuovo trend del momento: “fare upcycling”. Un modello di produzione che si sta facendo strada tra complessità economiche e opportunità ambientali e sociali. Un nuovo fenomeno che speriamo possa conquistare non solo le nuove generazioni, ma anche quelle passate.

Redazione

Se fino a qualche anno fa cambiare le proprie abitudini quotidiane a favore del pianeta non era considerata una priorità, varcata la soglia di questo nuovo decennio è invece impossibile restare indifferenti di fronte alle continue catastrofi ambientali a cui assistiamo sempre più frequentemente. La necessità di applicare modelli di business rispettosi dell’ambiente e delle persone si è estesa ormai a tutti i comparti di produzione, raggiungendo anche il settore tessile, che incide per circa il 10% delle emissioni mondiali di CO2 ed è la seconda industria più inquinante al mondo. Secondo l’European Environment Agency,  gli europei acquistano in media 26 kg di abiti all’anno: un quantitativo enorme, che ha lanciato un campanello d’allarme a tutto il comparto tessile. 

A fronte di eccessi di stock e ingenti quantità di capi invenduti, nel mondo della moda si parla ormai da diversi anni dell’importanza di recuperare i materiali. Se un capo è in buono stato è bene che venga riutilizzato perché è la scelta più sostenibile dal punto di vista economico e ambientale. Tuttavia, se questa strada non può essere percorsa perché l’abito è troppo usurato, un’altra soluzione, anch’essa sostenibile, è l’upcycling.
Dare una nuova vita a materiali tessili di scarto, oggi più che mai, è la nuova frontiera della moda che sta spopolando tra i designer emergenti. Un fenomeno di nicchia che pian piano si sta diffondendo sempre di più tra le case di moda e che parte proprio dal recupero creativo, definito oggi con il termine “upcycling”.
Per approfondire questa nuova tendenza ci siamo rivolti a Francesca Patania, fondatrice del marchio sostenibile Belt Bag. Si tratta di un progetto della cooperativa sociale Occhio del Riciclone, che realizza borse e accessori create con tessuti pre e post consumo acquistati o donati dalle più importanti aziende italiane e rielaborati attraverso un processo di upcycling. La Cooperativa Sociale è parte del nostro network e, oltre alla tutela dell’ambiente, promuove l’inclusione lavorativa di persone svantaggiate.

Cogliamo quindi l’occasione per fare due chiacchiere con Francesca:

Spesso il termine “upcycling” viene utilizzato in modo errato, ci spieghi meglio in che cosa consiste e come viene applicato nel settore tessile?

Con il termine upcycling si intende quel processo che dà una nuova vita a un oggetto o a un materiale di scarto non solo in termini di qualità, ma anche di creatività, conferendogli una nuova funzione estetica rispetto all’oggetto/materiale originario. Nel caso dei materiali pre-consumo, la tecnica dell’upcycling permette di valorizzare il materiale, altrimenti destinato a diventare rifiuto, trasformandolo in un nuovo prodotto. Nel settore tessile, alcune volte, si utilizza erroneamente il termine “upcycling” associandolo al processo di rigenerazione della materia prima seconda, ovvero quando il rifiuto diventa risorsa, un termine che un tempo veniva denominato recycling industriale (down-cycling).

Sei la fondatrice del marchio Belt Bag, come è nato il brand e la tua passione per questa pratica?

Ho sempre avuto la passione per il riuso creativo e per la moda. Sin da bambina ho sempre amato trasformare oggetti e vestiti, disegnare e cucire abiti usando gli scampoli di stoffa delle lavorazioni sartoriali di mia madre. Di questa grande passione ne ho poi fatto il lavoro della mia vita.

Nel 2008, insieme a una mia ex collaboratrice, abbiamo creato delle linee di abbigliamento in upcycling partendo proprio da abiti usati e materiali di recupero. Tra tutti i materiali che abbiamo sperimentato siamo rimaste molto colpite dalla lucentezza e dalla stabilità delle cinture di sicurezza delle auto. Da qui è nata la linea total black Belt Bag: una capsule di borse fatta interamente in cinture di sicurezza.

Come vedi la direzione che sta prendendo questa tendenza?

Dal 2008 ad oggi sono stati fatti molti passi avanti in quest’ambito: sono nati brand che lavorano in modo artigianale, con articoli upcycled ben fatti e con una coscienza etica molto forte. Parallelamente anche il consumatore, soprattutto appartenente alla Gen Z, è diventato molto più consapevole e attento alla storia di un prodotto. Le grandi firme hanno iniziato a riconoscere nell’upcycling una valida opportunità di business, rielaborando i capi rimasti invenduti o provenienti dai loro stock di magazzino, creando delle capsule upcycled.
La tendenza è quella di sistematizzare il processo rendendolo scalabile entro i limiti di unicità dei prodotti. In tal senso il lavoro del designer diventa ancor più importante all’interno del processo produttivo proprio per la gestione degli accostamenti dei materiali, texture e colori.
Per una visione futuristica dell’upcycling, l’ecodesign deve essere parte integrante della realizzazione di un prodotto, cosicché i beni progettati possano durare nel tempo e semplificare a loro volta le successive fasi di riutilizzo o upcycling.
Inoltre, alcune aziende hanno riconosciuto nell’upcycling un’opportunità innovativa per aumentare la responsabilità sociale d’impresa: per questo si rivolgono a realtà come la stessa Belt Bag, che è in grado di realizzare accessori di merchandising o gift aziendali con la tecnica dell’ upcycling,  partendo dai materiali rimasti inutilizzati.

Quali sono i vantaggi di fare upcycling rispetto alla pratica del recycling?

I benefici dell’upcycling sono di tipo economico, ambientale e sociale. L’upcycling limita l’uso di materie prime e di energia, riduce le emissioni di gas serra, incentivando una produzione e un consumo sostenibili: proprio per questo è riconosciuta come attività più verde rispetto al recycling. Con la pratica dell’upcycling i rifiuti acquisiscono qualità e valore e i prodotti finali hanno un maggiore valore estetico e funzionale. Nel recycling la materia che ne deriva ha un minor valore di quella originaria. I prodotti upcycled invece, acquisiscono oltretutto un valore aggiunto di unicità e artigianalità. Queste due pratiche sono quindi complementari, l’una non esclude l’altra. Non tutti i prodotti o materiali si prestano a diventare prodotti upcycled ed è bene che tali prodotti, se possibile, vengano riciclati.


La rivoluzione può partire proprio dai piccoli gesti come riparare un capo per allungare il suo ciclo vita, modificare l’estetica di un indumento che non ci piace più o perché no rivoluzionarlo del tutto e conferirgli una nuova funzione.
Per farlo però è indispensabile imparare ad amare ciò che indossiamo e, come facciamo con qualsiasi oggetto al quale ci affezioniamo, cercare di non sprecarlo ma valorizzarlo. Arriverà poi il momento in cui quel capo o accessorio tanto amato non soddisferà più i nostri gusti o esigenze: in questo caso è possibile dargli una seconda possibilità, affidandolo a organizzazioni che sappiano attribuirgli il giusto valore. Ed è proprio qui che entra in gioco Humana.

Ogni capo che entra nella nostra filiera non solo viene valorizzato al meglio per generare un impatto ambientale significativo, ma permette anche di creare un impatto sociale positivo: trasformare le vite di molte persone che come noi vogliono sognare in grande.
Quando scegliamo di acquistare un abito ce ne assumiamo la responsabilità e dobbiamo prendercene cura, così da essere dei consumatori e dei cittadini responsabili che non danneggiano il pianeta, ma lo tutelano.