Sempre più sdoganato anche per il grande pubblico, l’abbigliamento second-hand si trova ora minacciato da nuovi fattori che rischiano di avere un impatto negativo non solo sull’ambiente ma anche a livello sociale, specialmente nei Paesi più fragili.

di Redazione

Secondo il rapporto 2020 dell’UNEP “Sustainability and Circularity in the Textile Value Chain” (Sostenibilità e circolarità nella catena del valore tessile), il 75% dell’impatto negativo sull’ambiente del settore tessile avviene nella fase di produzione, mentre la fase del fine vita e dello smaltimento (in discarica o incenerimento), riveste l’1%[1].

Evitare gli sprechi quindi è importante, ma evitare la produzione è ciò che davvero giustifica il fatto di tenere i capi di abbigliamento fuori dalle discariche. Finché gli articoli possono essere utilizzati, si evita la produzione di nuovi capi. L’industria del riutilizzo, proponendo alle persone prodotti usati ma non utilizzati, svolge un ruolo chiave in questo senso.  Humana People to People ha identificato la possibilità di trasformare queste risorse non solo in impatto ambientale positivo, favorendone il riutilizzo, ma anche in progetti sociali che ogni anno migliorano la vita di milioni di persone[2].

Oggi il mercato dell’abbigliamento di seconda mano è apprezzato per la sua sostenibilità e il suo valore estetico. Il mercato dell’usato è dove la durata incontra l’abbondanza: io indosso i tuoi vestiti e tu indossi i miei, ed entrambi abbiamo vestiti nuovi senza che sia stato prodotto nulla. Marina Spadafora, coordinatrice di Fashion Revolution Italia e Ambasciatrice mondiale della moda etica, in un’intervista al blog definisce chi acquista e indossa capi usati “stilosi eroi del recupero e ambasciatori di un mondo diverso dove bellezza e solidarietà coesistono felicemente”[3].

L’avvento del fast-fashion e il declino della qualità

All’inizio degli anni 2000 è arrivata la fast fashion e ora l’ultra-fast fashion e parallelamente, la produzione e la logistica dirompenti hanno abbassato i costi e le nuove tecniche di marketing hanno stimolato i consumi, insieme a una diminuzione del 36% del tempo medio di utilizzo, secondo la Ellen McArthur Foundation[4].

Sebbene la domanda di abiti di seconda mano sia cresciuta in tutto il mondo (e possa crescere ancora di più), oggi il mercato globale dei tessuti usati è in crisi.

La qualità media dei capi usati infatti sta nettamente diminuendo. A causa dei tagli sui costi delle materie prime e del confezionamento, i capi si scoloriscono e perdono forma più rapidamente con i lavaggi, e il loro valore di riutilizzo cala drasticamente. Secondo un recente studio del Ministero dell’Ambiente e delle Infrastrutture olandese, i centri di smistamento dei tessili segnalano una diminuzione dei tassi di riutilizzo dall’80% al 50% negli ultimi anni[5]. I marchi di moda ultra-veloce rappresentano una sfida aggiuntiva: gli articoli costano così poco quando sono nuovi che i negozi di seconda mano in Europa riescono a malapena a ricavarne un profitto. Per quanto riguarda gli articoli non riutilizzabili, i riciclatori pagano poco o nulla, poiché vi sono sufficienti rifiuti tessili post-industriali e rifiuti post-consumo ancora di buona qualità per soddisfare le esigenze limitate di un mercato che deve ancora crescere.

Sul mercato sono disponibili più tessuti usati. I vestiti vengono scartati in modo massiccio in nuove parti del mondo. La Cina ha registrato un aumento del 600% del valore dei vestiti di seconda mano esportati in soli 10 anni. Questo è il risultato di un’evoluzione sociale – l’emergere di una classe media cinese e del consumo ad essa associato – che non potrà essere annullata.

Il vantaggio competitivo dell’usato sta diminuendo. Il prezzo è il motivo principale per cui si acquista usato in tutto il mondo. Ma i nuovi articoli a basso costo stanno guadagnando terreno. Anche in Mozambico, uno dei paesi più poveri del mondo, i marchi di fast fashion con sede in Sudafrica sono ora i maggiori fornitori dei negozi delle vie principali del paese, come dimostra un recente rapporto commissionato dall’ADPP Mozambico (membro della Federazione Humana People to People)[6]. Il mercato dell’usato rimane competitivo, ma se ulteriori restrizioni dovessero gravare sui mercati globali del riutilizzo, il fast fashion conquisterà ancora più terreno.

In queste condizioni, l’attività di raccolta, smistamento e vendita di tessuti usati non può essere sostenuta. Gli operatori stanno fallendo e l’allarme è stato lanciato in Europa da voci autorevoli come EuRIC[7] e in Italia dalle associazioni di categoria come UNIRAU e ARIU[8]. La moda circolare sta perdendo il suo ecosistema più prezioso.

Quali azioni adottare per salvare il mercato del second-hand

Innanzitutto, attuare immediatamente la responsabilità estesa del produttore. Questa politica è efficace nel raccogliere fondi per coprire i costi della raccolta differenziata dei rifiuti e stimolare il riciclo. Il settore dei tessili post-consumo deve essere mantenuto in vita. Con i fondi EPR, gli operatori del riutilizzo e i riciclatori possono essere remunerati, anche se il mercato non paga abbastanza per i materiali che producono.

Richiedere capi di abbigliamento di qualità attraverso requisiti di ecodesign. L’UE sta preparando tali requisiti nell’ambito del regolamento sulla progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili. È necessaria ambizione, nonché un’applicazione risoluta per garantire che tutti i prodotti immessi sul mercato dell’UE siano conformi.

Applicare dazi doganali agli ordini online di fast fashion e ridurre l’importo dell’IVA per i prodotti circolari. I mercati online globali consentono agli indumenti a basso costo di raggiungere facilmente i consumatori europei eludendo gli obblighi fiscali e i controlli di sicurezza. Questo a scapito dei produttori che hanno reso più ecologici la loro catena di approvvigionamento e i loro processi di produzione e che si trovano a dover affrontare l’afflusso di questi prodotti. Le misure fiscali contribuiranno a riequilibrare il mercato. La riduzione dell’IVA per i prodotti e i servizi circolari ne migliorerebbe ulteriormente la competitività.

Infine, ma non meno importante, puntare sul comportamento. La legge francese contro il fast fashion sta indicando la strada: vietare la pubblicità non dovrebbe essere un tabù. La transizione non avverrà senza una trasformazione culturale, che può essere ottenuta più o meno allo stesso modo in cui è stato reso impopolare il fumo. Le leggi anti-tabacco hanno imposto tasse e prezzi elevati, luoghi pubblici senza fumo, grandi avvertenze sanitarie sui prodotti e divieti di pubblicità del tabacco. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, hanno dato risultati: nel 2000 il 32,7% della popolazione mondiale consumava tabacco in qualche forma; oggi è il 19,8%[9].

Ci sono i mezzi per agire. L’industria globale dell’abbigliamento di seconda mano è una risorsa preziosa, sia per l’ambiente che per lo sviluppo globale, che merita di essere protetta e promossa. È necessario perseverare finché ogni guardaroba non sarà composto per il 50% da capi di seconda mano. Un obiettivo ambizioso e certamente anche stiloso.

(testo ispirato all’articolo di Fashion United)


[1]  Sustainability and circularity in the textile value chain
[2] Progress Report 2024 Humana People to People
[3] Vestire vintage, una scelta di vita
[4] A new textiles economy
[5] Fast-fashion undermines the circular textiles value chain
[6] Current status of Mozambique’s second-hand clothing market
[7] Comunicato stampa EuRIC FEAD
[8] Comunicato stampa UNIRAU e ARIU
[9] WHO global report on trends in prevalence of tobacco use 2000–2030