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Un miliardo e trecento milioni di persone, quasi un quinto dell’umanità, vive in Africa. Eppure al 15 marzo i casi accertati di COVID19 in Africa sono circa 250 dei quali la maggior parte in paesi nordafricani. Di fatti, la mappa interattiva dell’epidemia costantemente aggiornata dalla John Hopkins University mostra grandi focolai dell’epidemia ovunque eccetto che nell’Africa Sub-sahariana. E questo nonostante gli intensissimi scambi con la Cina.

Come si spiega questo fatto?
L’epidemia potrebbe essere sottovalutata: in tutto il continente, riferisce l’OMS, sono stati fatti solo 400 test a fronte di poche migliaia di tamponi disponibili. Ma Salim Abdool Karim, direttore del Centre for the AIDS Program of Research in South Africa, osserva che per ora non c’è stato un aumento di ospedalizzazioni dovute a difficoltà respiratorie acute. Pertanto, dice Karim “sono ragionevolmente sicuro che per ora il virus non abbia una diffusione ampia”. Ma è solo una questione di tempo. Secondo Karim “è inevitabile che anche in Africa ci sarà una forte epidemia”.

E a soffrirne sarà la parte più vulnerabile della popolazione, che si sposta per andare a lavorare utilizzando affollatissimi minibus e vive ammassata in piccole abitazioni che si trovano in quartieri insalubri o aree rurali prive di acqua potabile e servizi igienici. A mitigare gli effetti dell’epidemia potrebbe essere la bassissima età media: solo il 3% degli africani ha più di 65 anni a fronte del 30% degli italiani e del 12% dei cinesi. Ma l’impatto globale dell’epidemia in Africa potrebbe essere comunque devastante a causa dell’inadeguatezza delle strutture sanitarie e della debolezza immunitaria di popolazione che sono già duramente colpite dalle epidemie di HIV, tubercolosi e malaria. Secondo Ifedayo Adetifa, epidemiologo clinico del KEMRI-Wellcome Trust Research Program “in assenza di accesso universale ai servizi sanitari, l’Africa semplicemente non avrà la possibilità di curare i casi di COVID19 più gravi”.

Contro l’epidemia Coronavirus, la cooperazione internazionale supera i vecchi schemi e diventa orizzontale. La Cina, che nelle sue aree più povere ospita numerosi programmi di cooperazione internazionale europei, diventa attore di cooperazione verso l’Italia per la lotta al nuovo Coronavirus.

Il Ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha detto all’agenzia Xinhua che “il virus non conosce confini ed è un nemico comune di tutta l’umanità”.
“L’Italia” ha dichiarato Wang “ci ha aiutato nelle fasi più dure di lotta al virus e ora il popolo cinese vuole stare saldamente al fianco di quello italiano”. Nelle ultime due settimane le videoconferenze tra medici cinesi ed italiani sono state frequenti, entro questo fine settimana la Cina invierà in Italia 5 medici specializzati nella lotta al virus, un membro della Croce Rossa di Pechino, un esperto di prevenzione, 1.000 respiratori e altre attrezzature mediche. Agli aiuti offerti dal Governo cinese per gli italiani, si aggiungeranno quelli dell’amministrazione della Provincia dello Zhejiang per i 300.000 cinesi emigrati in Italia, che riceveranno equipaggiamenti per la prevenzione come guanti in lattice e mascherine.

HUMANA People to People, presente in Cina da 10 anni, è uno degli enti di cooperazione internazionale più attivo nelle aree povere del paese asiatico. A lato di programmi per il reinserimento scolastico e lo sviluppo agricolo, HUMANA è impegnata anche nella lotta contro le epidemie. Li Jiancai, project manager di HUMANA nella provincia dello Yunnan, ha spiegato che la chiave del successo di questi programmi, oltre la lunga esperienza nella lotta alle epidemie sviluppata in Africa, è la sinergia con la società civile e soprattutto con le Federazioni di donne locali. Nei programmi contro HIV e Tubercolosi applicati da HUMANA in Cina tutti gli “ufficiali di campo” assunti sono donne, e questa è una grande sfida culturale in aree dove prevale una visione tradizionalista del ruolo della donna, che tende a essere timida e ritirata.